Oggi abbiamo il piacere di parlare con Francesco Mattioli, anno 1975, 194 cm di altezza, da tanti anni nel mondo della pallavolo, prima come giocatore e adesso come allenatore. Ma sempre con grandi soddisfazioni e ad altissimi livelli, dal debutto come giocatore in A1, da giovanissimo, per poi arrivare alla corte dell’Italvolley come terzo allenatore e adesso in Serie B con Arno Volley a Castelfranco.

Siamo contenti di poter parlare con un grande sportivo, “figlio d’arte” del grande Mario Mattioli. Ma raccontaci un po’ di te:

  • come è nata la passione per questo sport?

Ho iniziato come tanti bambini italiani con un altro sport, il calcio, giocando nel Firenze Ovest per ben 9 anni. Alla fine però, non è che mi divertissi un granché, anche perché stavo sempre in panchina. A 14 anni mio padre, che viveva nell’ambiente della pallavolo, mi invitò a fare un Camp misto con ragazze e ragazzi. Incuriosito dalla cosa (e anche dalla presenza delle ragazze) andai e fu un’esperienza molto bella: mi divertii e mi appassionai a questo sport, che in fondo era di casa, ma che iniziai finalmente ad apprezzare e a praticare.

Mio padre, Mario Mattioli, è stato importante non solo come papà, ma anche come consigliere tecnico, dato che mi dava dritte su come migliorarmi tecnicamente. Successivamente lo è stato anche come allenatore: come in Serie B a Verona e in Serie C a Quarrata. Era sicuramente un precursore per i suoi tempi e sono contento che molti lo ricordino ancora come esempio positivo.

  • La differenza più grande fra essere giocatore ed essere allenatore?

Giocare è sempre molto più divertente perché oltre a fare sport e a tenersi in forma hai sicuramente meno responsabilità rispetto a un allenatore. Peraltro anche i compensi sono più alti.
Da giocatore, dal momento in cui dai il massimo in campo e in allenamento ed “esegui” quello che ti viene detto dallo staff tecnico, hai fatto quello che ci si aspetta da te.

L’allenatore invece ha responsabilità maggiori. Deve riuscire a convincere i giocatori di quello che vuole portare avanti, fargli capire quello che vuole e come eseguirlo. Per fare questo deve essere non solo competente, ma anche credibile. Deve creare il giusto clima e capire i giocatori che ha a disposizione . Scoprire la chiave che li fa scattare, reagire. E comprendere come farli arrivare al miglioramento, al raggiungimento dell’obiettivo. E dato che ogni giocatore è diverso e reagisce in maniera differente agli stimoli, deve capire come rapportarsi ad ognuno di loro. Avere da tutti i giocatori quello che vuoi non è semplice e devi pensare e “inventarti” non solo gli esercizi ma proprio l’atteggiamento e il modo di comportarti col singolo giocatore. Quindi è un lavoro non solo fisico ma anche psicologico.

Sicuramente se da un lato ci sono più pressioni è comunque vero che è più facile lavorare a livelli più alti perché hai più responsabilità ma hai anche a disposizione un team intorno che si divide i compiti.

Per assurdo è più difficile con le serie minori ed più complicato perché le responsabilità e l’impegno le stesse dei campionati maggiori, ma sono anche individuali. Non hai secondo allenatore, scout. Mancano certe figure tecniche e non puoi delegare.

 

  • E quanto è importante dunque l’allenamento fisico e quanto quello mentale?

    Hanno la stessa importanza, per chi lo richiede, perché allenare tecnicamente non basta e serve anche la motivazione. Se uno cresce tecnicamente acquisisce naturalmente sicurezza. Ma a volte nello sport si sono verificate situazioni di pressione che hanno innestato sfiducia in sé stessi e nei propri mezzi. In questi casi occorre capire il problema e se un supporto, anche psicologico, può essere necessario. Ma non tutte le società sono attrezzate per questo, quindi l’allenatore spesso deve cercare di essere empatico e mettersi al servizio, non solo della squadra, ma anche del singolo atleta.

  • Preferisci allenare giocatori già formati o far crescere i più piccoli? Il “bastone e la carota”. Cosa preferisci quando alleni?

    Non ho una vera e propria preferenza, perché sono due esperienze diverse. Peraltro io sono sempre molto incoraggiante, soprattutto coi piccoli, cercando di guidarli nel loro percorso di crescita. Con i ragazzi grandi e gli adulti sono invece molto schietto: se qualcosa devo dirla la dico ma senza “aggredire”. Non sono un allenatore da “punizioni”, urli e strepiti. Se devo dare degli esercizi in più per motivare ben venga, ma preferisco il dialogo per far capire cosa non va all’atleta. Ce sono alcuni a cui serve l’esercizio in più da fare e questo li motiva. Altri invece che se li “punisci” si deprimono e perdono fiducia in loro stessi. Come dicevo sta all’allenatore o al team di lavoro, cercare di capire la singola esigenza, per poi lavorare in quella direzione.
  • È difficile motivare gli atleti più giovani? Come fate per spronarli e farli credere in loro stessi?

    Tutto sta nel trovare il loro percorso. Trovo sbagliato non analizzare le capacità tecniche del singolo atleta. Far eseguire a tutti lo stesso percorso tecnico è spesso controproducente: inutile fargli fare cose che gli riescono o cercare di spingere troppo avanti rispetto alle capacità. La proposta tecnica deve essere infatti adeguata all’atleta. Un piccolo passo alla volta perché  ci sono atleti che arrivano prima e altri che arrivano dopo.
  • Come descriveresti l’allenamento perfetto?

    Come dicevo prima non è uguale per tutti. Perciò penso che sia quello adeguato alle capacità tecniche individuali dell’atleta.

 

  • Quali sono i ricordi e le soddisfazioni che ti stanno più a cuore da giocatore? E da allenatore?

Non ho vinto molto pur giocando in serie importanti e sono sempre stato conscio dei miei limiti. Ma sicuramente fra i ricordi più belli e le soddisfazioni ci sono quello di aver partecipato ad alcuni raduni della Nazionale da giocatore, anche se poi non è seguita la convocazione. Sono esperienze che comunque fanno crescere. Aggiungo poi la Coppa Italia in A2  e i Campionati vinti in Serie B e i Play Off a Molfetta in A2, così come la Superlega a San Giustino, in cui arrivammo ai Play Off quando gli obiettivi iniziali erano semplicemente di salvarci.

Da allenatore ricordo con piacere il Campionato e la Coppa Italia in Serie B a Castelfranco, i Campionati Regionali e la Selezione Regionale Toscana che mi ha dato grande soddisfazione perché lavorai con tanti giovani giocatori promettenti, pieni di voglia di imparare e migliorare. 

 Ovviamente poi ci sono le competizioni internazionali con l’Italia come la Word League del 2017, il Mondiale del 2018, l’Europeo del 2019, così come la Coppa del Mondo in Giappone nel 2019 e le Olimpiadi del 2021 (Tokyo 2020). Tutte esperienze incredibili e ricordi indelebili.
 

  • Il più grande rimpianto?

Fortunatamente non ho grandi rimpianti perché ho sempre conosciuto i miei limiti di giocatore. Sono migliorato e maturato molto negli ultimi anni della carriera quando però era forse un po’ troppo tardi. Se proprio devo chiamarlo rimpianto, se avessi raggiunto quella maturazione tecnica, fisica e psicologica qualche anno prima, forse mi sarei levato qualche soddisfazione personale in più, ma non ne faccio un dramma.

  • I tuoi sogni nel cassetto? Quali traguardi vorresti raggiungere?

Per quanto riguarda il futuro vorrei provare a continuare ad allenare serie maggiori. Adesso mi dedico alla Serie B e ad allenare alcuni settore giovanili a Firenze ma fino a quando i miei figli non saranno più grandi sono molto concentrato sulla mia famiglia. Successivamente chissà.

  • Quanto influisce la vita sportiva nella crescita personale?

Tanto sicuramente e soprattutto a livello caratteriale. Diventi un giocatore di livello se migliori a livello non solo tecnico e fisico ma anche caratteriale. La vita sportiva ti aiuta credere in te stesso, a superare i momenti difficili e incassare le delusioni per poi andare comunque avanti.

Lo sport è un po’ lo specchio della vita: affrontare i problemi, non mollare mai, resistere alle pressioni e al disagio.

  • Il volley ti ha fatto viaggiare molto. Ti piace questo lato del tuo lavoro e della tua passione?

Si, viaggiare mi piace molto così come vedere posti nuovi. Non soffro il viaggio e anche se alcune trasferte sono pesanti a causa del fuso orario (penso ad esempio ad Argentina o Giappone) le fai solitamente in condizioni ottimali con la Nazionale.
Da giocatore poi hai comunque la possibilità di riposarti fra un allenamento e un altro mentre forse da allenatore un po’ meno perché, anche quando non ci sono gli allenamenti, devi lavorare, preparare il lavoro al computer, anche se il fuso orario ti fa crollare dal sonno. Ma alla fine è sempre piacevole.

Mi spiace solo pensare a mia moglie, da sola con i tre figli, senza il mio aiuto, perché comunque quando sono in trasferta sto fuori per lunghi periodi. E anche se ci organizziamo bene per queste evenienze, mi rincresce sempre.

  • Hai sempre pensato che la pallavolo sarebbe stato un lavoro o inizialmente lo vedevi semplicemente come uno sport?

Inizialmente era solo divertimento e sport. Crescendo, maturando, quando vedi che le Società iniziano a cercarti, capisci che può essere il tuo lavoro.
Ancora adesso, comunque, penso qualche volta alle alternative all’Allenamento. Per ora la passione è forte ma in futuro chissà. Ho studiato Architettura  e mi mancano ancora 3 esami e chissà che prima o poi non termini gli studi. Non mi dispiacerebbe neanche pensare a un Centro Sportivo per rimanere comunque nell’ambiente dello sport. Così come cambiare completamente settore e tipo di vita. Vedremo. Adesso resto concentrato sulla pallavolo.

  • Come mai, secondo te, nonostante i grandi livelli raggiunti dalle Nazionali maschili e femminili italiane e dai Club, il volley non raggiunge la giusta notorietà presso il grande pubblico?

Credo che il calcio avendo più visibilità e più spettatori riesca a calamitare ancora oggi Media e Sponsor che guardano naturalmente al calcio per i numeri e qui investono. Anche i budget delle società sono molto lontani fra i due sport. Le maggiori società di pallavolo non si avvicinano neanche lontanamente alle possibilità economiche di quelle calcistiche. 

Comunque, a livello femminile, la pallavolo è  lo sport più praticato. Inoltre, per fortuna, le competizioni importanti sono sempre molto seguite da un pubblico eterogeneo. Ultimamente è piuttosto seguito come sport, anche dai canali televisivi, c’è una buona copertura anche dei Campionati. Spero che questo interesse possa continuare a crescere anche se l’Italia resta legata al Calcio, soprattutto nel mondo maschile.

  • I grandi successi delle Nazionali agli ultimi eventi internazionali pensi potranno cambiare questo trend di notorietà?

Nel momento in cui ci sono delle vittorie in alcuni settori, aumenta di conseguenza la notorietà degli sport minori. Il timore è che finite le vittorie torneremo ad essere “dimenticati”. Quindi aiuta sicuramente  ma non è la cura: non risolve il problema degli sport minori. Forse c’è anche un problema di autopromozione. Gli investimenti economici e pubblicitari possono infatti servire.

Ormai però la pallavolo non si può ritenere uno sport minore, vista anche la grande visibilità che viene data che sta portando ad una ampia affermazione a tutti i livelli.

  • In alcune Regioni la pallavolo ha uno sviluppo e un riconoscimento maggiore rispetto ad altre. È un fatto culturale o di investimenti anche economici

Credo che sia un discorso più culturale: in alcune regioni, penso soprattutto all’Emilia Romagna, così come in Sicilia, la pallavolo è uno sport che ha preso piede già tanti anni fa e si è radicato. Ancora oggi molte squadre sono nei massimi campionati di Serie A e B.

  • Nella squadra il “team” è molto importante. Come si crea il giusto ambiente?

A livello professionale i risultati spesso risolvono tutto. Infatti quando si vince i problemi di spogliatoio, di squadra, quasi non esistono. Quelli escono infatti quando perdi. A livello professionale poi gli atleti sono abituati a vivere con persone diverse da loro, ad affrontare caratteri più o meno difficili senza entrare in conflitto.
A livello amatoriale o giovanile è invece più difficile perché gli atleti possono entrare in competizione o non affrontare nel modo migliore gli spigoli caratteriali. In questi casi sta all’allenatore cercare di capire se ci sono criticità e come risolverle, anche se spesso sono proprio i giocatori a creare l’amalgama.
Gli allenatori non vivono tantissimo lo spogliatoio ma possono dettare la strada da fare, gli obiettivi comuni. Ma spesso sono proprio alcuni atleti che sono la forza interna allo spogliatoio. Che creano il gruppo e lo tengono unito. Questi giocatori sono spesso fondamentali all’interno del team.

  • Come carichi i tuoi giocatori prima di una partita?

I giocatori vanno caricati soprattutto nelle partite semplici perché il rischio è sempre quello di arrivare troppo sicuri e convinti di “aver già vinto” ed è lì invece che bisogna mantenere lucidità e concentrazione, nonché grinta. Su quelle difficili, di solito, sono già carichi da soli ed è meglio non esagerare. Quindi, a meno che la settimana di allenamento non abbia fatto uscire fuori criticità o problematiche da affrontare, su alcune partite non c’è da lavorare su questo aspetto.

  • Un’ultima domanda. Sei anche genitore: che sport praticano i tuoi figli?

Ovviamente tutto tranne la pallavolo.
I due maschi giocano rispettivamente a tennis e calcio, mentre mia figlia pratica nuoto e karate. Ma non mi dispiace e va bene così. L’importante è che siano contenti e che facciano sport.

 

Intervista di Niccolò Ferrarese

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